10 gennaio 2009

La passione quasi tragica dell'ascolto

Scusassero la prolungata assenza, ma l’Adolescenza consuma il tempo e l'esistenza del genitore.


Da molto tempo l’idea non espressa mi gira nella testa. Non trovavo i termini per esporla compiutamente.

A dimostrazione che le cose basta cercarle alla fonte, ecco venirmi in aiuto niente meno che Aristotele che nella Poetica (6 p.1449 b 24-28) dà la prima definizione giunta a noi della Tragedia greca (quella di Eschilo, Sofocle ed Euripide per intenderci)


La Tragedia dunque è rappresentazione (mimesi) di un’azione seria e compiuta in se stessa, avente una determinata ampiezza, con stile adorno, appropriato al genere di ciascuna della parti; di persone agenti e non in forma narrativa; e che, attraverso pietà e terrore, consegue l’effetto di liberare da siffatte passioni.


Per inciso, prima della Tragedia greca, nulla del genere era mai apparso nella cultura occidentale. Ancora oggi è un mistero come la cultura greca abbia potuto far nascere dalla poesi a dell’epica (forme puramente poetiche e narrative) una struttura complessa e multidisciplinare come il teatro, che prevedede l’integrazione di poeti, attori, registi, cori, musiche, scenografie, attrezzi scenici. Alcuni sostengono che solo una civilità libera e democratica come l’Atene del 500 AC poteve far nascere al suo interno un meccanismo artistico così perfetto e nobilmente “politico”, così omnicomprensivo delle passioni umane. Mai più ripetuto e da allora solo imitato.


Aristotele nalla sua definizione sostiene quindi il compito della tragedia teatrale è proprio quella di rappresentare le passione e facendo ciò liberare da queste passioni noi poveri mortali che assistiamo alla rappresentazione.


Non un semplice “mal comune mezzo gaudio”, ma un “digerire” la proprie passioni, angosce e dolori attraverso la rappresentazione dei dolori degli altri e dell'estro poetico con cui l’artista è riuscito a rappresentarle. Gli Ateniesi in pratica si psicoanalizzavano in gruppo e all’aperto, non sul lettino dello psicanalista.


Quello che a me viene pensare è che le forme di arte che oggi noi apprezziamo e viviamo, quelle in particolare orientate all’aspetto contradditorio e insondabile della vita, siano tutte figlie del teatro drammatico greco e della “pietà e orrore” che esse manifestano e risvegliano in noi.


Quindi, semplificando grandemente, me ne rendo conto, ecco spiegarsi il motivo per cui amiamo un certo tipo di musica in cui si sprofonda nelle profondità del sentimento umano. Un testo di Leonard Cohen o di De André, un sound inquietante come quello dei Portished o dei Massive Attack, la cupezza introversa dei Joy Division, i Winterreise di Schubert, il Finale del Tristano e Isotta di Wagner, la rabbia impotente dei Germs, il wanna be your dog di Iggy Pop & The Stooges, l’atmosfera rituale e liberatoria del concerto rock.

Cosa può portare ad amare un brano/video come Liar della Rollins Band o Song to Say Goodbye dei Placebo dove viene espresso il peggio dell’animo umano (la sadica menzogna da una parte e la dipendenza/depressione dall’altra)?


Forse, attraverso questi testi noi ci diciamo “ecco a cosa può giungere l’uomo. Ecco a cosa posso giungere anche io. Ma io non sono poi così e le mie pene sono poca cosa in confronto”.


Questo riguarda credo altre esperienze estetiche: Apocalypse Now di Coppola, Barry Lyndon di Kubrick nele cinema, Francis Bacon nell’arte figurativa, Borges e Buzzati in letteratura, solo per citare i primi che vengono in mente.

Fino a capire anche gli amanti del cinema horror e del metal estremo, che hanno un modo ancora più radicale (sebbene più esplicito) per vivere la catarsi delle proprie paure e violenze.

Fino a forse giustificare (?) anche il masochismo dei fruitori della tv verità dove l’orrore del vicino messo in piazza fa sentre meno sfortunato il diseredato spettatore..

Ad ognuno la catarsi che si sceglie/merita, per evitare di passare dall’estetica ai fatti...


Ignobilmente unendo alto e basso, dopo Aristotole, mi piace citare Lester Bangs, mio amato critico rock britannico, che da qualche parte nel suo Guida ragionevole al frastuono più atroce sosteneva che gran parte di coloro che ascoltano rock sono coloro che in realtà gli eccessi vissuti e narrati dai loro idoli ed interpreti, vigliaccamente, non li vivranno mai.



In pratica, a tutti noi è piaciuto immaginarci degli Iggy Pop, dei Lou Reed, dei Jim Morrison, dei Sid Vicious, dei Ian Curtis, dei Kurt Cobain, delle Amy Winehouse (alcuni, ne sono certo, si commuovono ascoltando l’Otello di Verdi o adorano la personalità di Wagner), ma alla fine abbiamo preferito pasti regolari a pranzo e cena e, quando si può, cappuccino e briosche.


Ma sentirci tanto “rock’n’roll” o ricordare quando pensavamo di esserlo ci aiuta a tirare avanti.


PS

Quanto ho scritto riguarda solo il “lato sensibile” dell’esperienza musicale. Ho qui trascurato altri aspetti quali il gusto quasi fisico di suonare uno strumento, lo studio della pura tecnica strumentale e compositiva, l’aspetto storico-musicale ed anche ovviamente la semplice dimensione ludico o funzionale (il ballo o il semplice ascolto distratto), tutte manifestazioni dell'ascolto degne di altrettanta attenzione in una eventuale analisi della fruizione musicale.

8 commenti:

Franco Zaio ha detto...

Bel post, Man of Rome apprezzerà molto penso ;-) Anche io spesso torno ai classici greci e latini per stupirmi della loro eterna attualità (l'ultimo è stato Seneca). Quanto al rock'n'roll più o meno vissuto, beh, i capodanni sul Beigua per me erano rock'n'roll, le serate in birreria, le mangiate da Skinfy... Insomma, una attitude divertita e dionisiaca. Ecco cosa rimpiango: il divertimento e il dionisiaco. Sex and drugs and rock'n'roll was all my brain and body need ;o)

Anonimo ha detto...

A tutti noi piace immaginarci delle rock star, ma nella realtà non lo siamo NON per una scelta di vita più tranquilla ma perchè non basta desiderarlo per essere un Iggy Pop, un Lou Reed o un Cobain.. no?

leorso ha detto...

Come ti voglio bene.

Arimondi ha detto...

Eh Madison, che nessuno di noi sia Iggy qui non ci piove. :-) Ma quanto volte ti sei rotolato sul pavimento al suono di "1970" immaginando di esserlo?
A me faceva stare molto bene a 20 anni...
Ora non lo faccio più solo perché se mi rotolo per terra i miei figli mi devono portare d'urgenza dall'ortopedico, ma la mente rotola ancora... :-)

andrea sessarego ha detto...

ehm...sarà tardi, ma ho un pò di problemi a seguire il discorso, sono un pò incolto...
Colonna sonora "A pain that I'm used to" dei Depeche Mode.

Arimondi ha detto...

Andrea, hai ragione, ogni tanto sbròdolo... :-)

Anonimo ha detto...

Mi era sfuggito questo post. Molto belle e stimolanti le connessioni che hai fatto, l’alto e il basso, questa catarsi che proviamo in tante esperienze estetiche di oggi, questo essere “rock” che poi alla fine ci permette di vivere meglio la nostra tranquillità borghese. Certo un qualche dubbio in me rimane, soprattutto per certe canzoni violentissime per adolescenti. Incitano alla violenza o ne allontanano in quanto catartiche? Del resto anche i Greci avevano dei dubbi sulla passione e orrore come catarsi. Se Aristotele vedeva nella tragedia una positiva funzione catartica, Platone, suo maestro, la bandiva invece come corruttrice dalla sua società ideale.

Bah. A me tutto ciò che è dionisiaco, così come da te descritto, piace veramente un sacco. E il tutto innaffierei con del buon rosso (toscano o piemontese), che più dionisiaco di così....

Anonimo ha detto...

leggere l'intero blog, pretty good