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Alla cena di fine anno della classe del figlio piccolo assisto dal vivo al racconto della lenta decadenza della media borghesia italiana.
I piccoli imprenditori della Milano Anni Ottanta e Novanta - pubblicità, agenzie di comunicazioni, servizi alle aziende - annaspano nella mancanza di lavoro, di commesse e per la prima volta - dopo anni in cui hanno potuto permettersi molto e spesso di più (e a molti non faranno pena) - vedono ridurre le capacità di spesa fino a cominciare a porsi l'interrogativo sul futuro, loro e dei loro figli.
Non è catastrofe come per chi perde il posto di lavoro, ma questo solo grazie a quanto è stato messo da parte negli anni migliori da loro stessi o dai loro padri.
Gli anni scorsi era un bisbiglio. Un imprenditore non mostra mai di essere in difficoltà.
Oggi questo sussurro è una preso d'atto di fronte a ormai troppi anni duri. E se ne parla apertamente, nel mal comune, senza gaudio.
Non so se saranno loro i primi a scendere in piazza, o se più probabilmente - forzati al cambiamento - saranno gli artefici di un rinnovamento dell'impreditoria italiana, avendo rappresentato per anni una parte vitale e creativa della società Italiana.
Noi altri, non imprenditori (impiegati, medici ospedalieri, insegnanti, funzionari del pubblico o, come me, del privato) ascoltiamo silenziosi, accarezzando nel profondo del nostro cuore il nostro lavoro, sentendoci tutti in verità come appesi ad un filo.
Il filo di quella famosa e tanto decantata "filiera" dei trattati di marketing, la cui trama appare più sottile ogni giorno che passa.
Alcune parole magiche illuminano gli sguardi di questi imprenditori. Energia rinnovabile, fotovoltaico.
Conciliare il profitto con la tutela del luogo in cui viviamo?
Provare a scrollarsi le paure e immaginare che il cambiamento porti qualcosa di buono.